Cominciò una domenica del 1985, una curiosità, una corsa in moto, una cava di marmo. Lassù m’accolse vertigine e rapimento; di colpo fu un anfiteatro di pietra come cattedrale, e scale appese, macchine poderose, fango, polvere, massi come zucchero e fili tesi a tagliare il cielo; dappertutto gravità immanente. Fu il respiro quieto della festa ad accendermi d’immaginazione viva: i colpi di mazza, le grida degli uomini e della pietra, le ruspe con ruote da giganti, e tagli di luce e di ombra; tutt’attorno strideva forte e tenera soltanto una melodia di uccelli, fondo sonoro d’uno scenario immaginato di fragore pieno. Lì accadde tutto.
In quella stessa cava un giorno vedrò un bimbo portare al babbo il suo mangiare; è per Tonino, cavatore e campanaro del paese, come altri morto sul lavoro. Neanche una scaglia di marmo sarà lapide, nella sua casa resta la mia foto per loro, di Tonino che ci guarda, intanto che mangia nella sua baracca di muri neri; sono il fumo caldo d’una stufa a legna.