L’accensione di un’idea, a volte, è condivisione con la persona che hai di fronte.
Così, seguendo il flusso della curiosità intorno alla donazione e al
trapianto d’organi con il professor Franco Mosca, ideatore della
Fondazione Arpa per la promozione della ricerca medica e della cultura
della donazione, ho sentito ancora una volta la fotografia richiamata
alla sua funzione per me primaria: documentare puntualmente attraverso
l’anonima cronaca del quotidiano.
In questo caso, accompagnando le storie di chi ripone oggi nel trapianto l’unica possibilità di vivere o di rendere la vita più accettabile. Di qui, gli oltre tre anni con medici e infermieri a seguire prelievi ovunque vi sia un donatore, nelle rianimazioni, nelle sale operatorie e di terapia intensiva, nelle corsie, corridoi e ambulatori, fin nelle stesse case dei pazienti, a respirare certa attesa e nodi emotivi. E anche dopo l’intervento, nei loro ritorni ad una vita, restituita dalla libertà di poter scegliere.
I perché, se esiste un perché dove lo spirito abita la materia, mi auguro siano suggeriti, semmai, dentro qualche domanda che a volte certe fotografie lasciano passare.
Quando
lo fotografai, Nicola aveva quattro anni, un fisico più sviluppato del
fratello maggiore e l’argento vivo addosso. Era al mare, ma non fu
possibile riprenderlo sulla spiaggia; un’attrazione irresistibile alle
onde continuava a proiettarlo verso l’acqua. Mai fermo un istante; per
fotografarlo mi aiutò la pazienza di sua madre, poi, per quasi due
interminabili secondi, rimase così com’è: quindi, fu lui a dirmi come
voleva essere ripreso.
Oggi, a sette anni, Nicola conserva tutta la sua energia vitale, la sua
mamma dice che riesce a farlo star fermo solo la disciplina scolastica o
il sonno. Mi racconta che lui nacque sano ma col fegato compromesso, al
punto che la sua vita poteva salvarla solo il trapianto. Così è
andata, perché Nicola ha avuto il suo piccolo donatore. Però tutti i
giorni sua madre deve dargli i farmaci antirigetto; un gesto che compie
col cuore stretto, perché sa bene che abbassano le difese immunitarie.
Lei si preoccupa per il suo sviluppo e si informa circa la scoperta di
nuovi farmaci con effetti collaterali ridotti. Spera che suo figlio
cresca sano, che superi bene i controlli, che i valori delle analisi
restino buoni, che il gesto della famiglia del piccolo donatore sia
ripagato dalla vita di Nicola.
Vincenzo è venuto da Firenze a Pisa con un decimo di vista al solo
occhio sinistro. Alla visita di controllo però di decimi ne ha
letti due, e nella fotografia sorride alla dottoressa; lei gli dice che
dopo altri esami si potrà tentare il trapianto anche dell’altra
cornea. È importante, sua moglie Maria è cieca da anni, e Vincenzo
deve lavorare, fa il massaggiatore all’ospedale. Ma anche il cuoco come
volontario nella sua parrocchia, e segue poi cento altre cose della vita
di quartiere.
Maria, che chiama tutti amore, è una donna di fede,
generosa. Una volta l’ho vista svegliare la bimba piccola dei loro
vicini, lavarla e scaldarle il latte, quindi mettersela sulle ginocchia.
Poi le ha trovato la bocca col dito e le ha dato il biberon. Così
la chiamano in molte case, e lei porta il suo coraggio e il suo
sorriso. Le succede di invocare Vincenzo solo quando si trova persa
in qualche angolo della loro casa.
Vincenzo mi ha raccontato la sua storia: « …fatto il trapianto,
dovetti stare per un po’ di tempo bendato. Dopo la sfasciatura sapevo
che forse avrei visto per la prima volta la luce, i colori, le persone,
tutte le cose del mondo che conoscevo solo col tatto. Arrivato quel
giorno, attesi il momento in camera, da solo, col silenzio e un po’
d’aria dalla finestra. Attesi mia figlia, attesi di averla di fronte,
solo lei. La vidi e le dissi: “Sei bellissima Silvia” ».
Luigi non voleva accettare un rene dalla moglie, ma Irene è stata tenace, almeno quanto il suo corpo, in quella fila di esami tesi ad accertare l’idoneità a donare. Con Irene e Luigi ho condiviso un po’ della loro attesa. S’era nel periodo natalizio e loro, in compagnia della figlia Donatella e del cane, aspettavano la chiamata per fare il trapianto. Ogni squillo di telefono un sobbalzo. Ma le ore non passano mai e le telefonate sono tante. Seduto alla tavola, con la testa appoggiata, Luigi guarda fuori, verso la finestra; in un attimo lo vedo riflesso nel vetro della tv spenta, e sento che quello scatto, con la sua fetta di albero di natale, potrebbe essere quello buono, quello che stampato coi toni giusti e il contrasto vivace, possa restituire quanto ho respirato tra quei muri. Cercavo un’immagine dell’attesa, di persone che ho visto debilitarsi, coscienti che l’organo sarebbe potuto arrivare già tardi, col fisico ormai inabile per un intervento tanto invasivo; dopo tanti accertamenti. Il giorno della loro “donazione di rene da vivente” io sono lì, a documentare quell’itinerario già conosciuto. La prima ad arrivare nel blocco operatorio è Irene, sicura come chi conosce un percorso lungo due anni, senza tentennamenti, che non sa il dubbio. Perché Luigi non faccia la dialisi. Lui arriva dopo, sotto il telo verde il suo corpo di atleta ha un leggero tremito, e lui, a quei volti di soli occhi risponde alla sua maniera, con parole asciutte, un po’ dimesse, quelle di prima della gara. Il suo pensiero è per Irene. Ma al momento giusto, nel corpo di Luigi, il rene di lei prende a funzionare, forte e sicuro, anche lui senza tentennamenti. Subito il commesso della sala operatoria conferma al chirurgo che sì, ne è arrivata proprio tanta, che l’urina ha quasi riempito il suo sacchetto. Un giorno mi arriverà una telefonata: è Luigi, mi dice che Donatella ha avuto il suo fratellino; mi aspettano per festeggiare.
Il volo del piccolo bireattore era durato più di
un’ora. Atterrati da un cielo scuro del sud, ci aspettava
l’ambulanza: ero con tre medici e il contenitore degli organi. Al resto
ci pensò la sirena. Quindi la vestizione, i ferri e l’attesa del
donatore.
Buio quel seminterrato senza finestre e senza calore, solo sagome di
persone quiete. Poi dall’ascensore una luce e una lettiga, due
infermieri, una flebo sopra le teste e tante braccia ad animare le
ombre, a toccare con mani silenziose quel bianco lenzuolo arreso, catena
di passaggio. Guardo solo.
Dicono ha diciotto anni, dicono un nome dei tanti a quell’età. Ma la sua
testa è calva, un casco slacciato la sua condanna. Sul suo petto
bianco, appena ieri bambino, uomini freddi e sterili, sapienti nelle
loro mani di lattice. A fare bene, a fare presto, a fare cavo il
suo costato. E il vuoto a dilatarsi tutto intorno, finché l’ultimo
pezzo di vita sarà consegnato al ghiaccio, per sanare disarmate
speranze. Sopra quelle carni senza dolore resta lei, vista di luce
riflessa, di soli occhi, con mani leggere, con la sua cuffietta di
balocchi.
«Su, portami in trionfo carne sorella, dal mio petto cavo tuoneranno nuovi palpiti».
Fiore bello di rosa, del corpo tuo, solo ieri immortale, il cuore oggi t’avanza.
È cuore di donatrice in un grembo di mani; culla di cuore nubile, senza festa di velo, né figli.
Poi, un insanabile istante t’ha resa eterna, e il cuore tuo, madre.
A fecondare vita in una vita già nata, seminata di sterilità da un guasto senza sonno.
È cuore di placenta per un petto dagli stremati colpi.
Che di notte, i tuoi nuovi giorni profumino per noi di petali rossi.
Enzo Cei